testi di Emanuela De Notariis e Luca Mastrangelo
Emanuela:
C’è una costante nell’arte presentata ogni anno da Art Shake: è ballerina tra inquietudine e leggerezza, ha il sapore della sottile violenza che si nasconde in ogni aspetto dell’esistere, a cominciare dalla relazione con l’altro. E sorniona mostra la zona d’ombra in gestazione nel proprio ventre.
Gli artisti di ART SHAKE III mi sembrano avere il potere di stanare lo status di disequilibrio e di incertezza in cui tutti ci troviamo, vacillanti, funamboli sull’abisso dei nostri stessi animi, sui precipizi delle nostre aspettative, sui quali gli artisti tentano di porre reti di sicurezza. Come in un circo, di cui diventiamo tutti attori. Personalmente, ho sempre voluto fare la lanciatrice di coltelli e avere tigri come amiche.
Luca:
Se tu fai la lanciatrice? Io faccio quello che fa il bersaglio! Come si chiama quello? Non c’ha un nome? Mestiere da brividi… Rischioso, come qualsiasi ruolo si rivesta in una dinamica artistica come quella di Art Shake, sia se si è artista sia se si è visitatore.
L’arte ha la responsabilità di lanciare i giusti coltelli nel giusto modo (provocazioni, visioni innovative del futuro e della società) il fruitore d’arte deve avere la forza e la freddezza di prendersi il rischio di veder messe in pericolo le proprie convinzioni, al limite la propria identità.
2501
Emanuela:
Città decostruite e ricomposte sui muri scrostati che ne costituiscono le ossa, o su tela, disegnate col sangue dei loro stessi abitanti, divenuto multicolore perchè nuova linfa vitale. Duemilacinquecentouno urli alla ricerca di spensieratezza si ritmano, aumentando a poco a poco i bpm, nelle notti di azione tra splendidi edifici in putrefazione. Poi rallentano, cinguettando come all’alba e le città si mostrano uccelliere di cui corrodere le sbarre, dai colori ammaliatori come quelli che scompongono i lineamenti dei loro abitanti immaginari.
Luca:
Vorrei vivere in città come queste. Ad ogni passo inciampi in un mostro mutante che ti proietta in un film con Bruce Lee e Greta Garbo, vedi insegne e suggestioni frullate da una esplosione globale. E sei nella Piazza Rossa e in Fifth Avenue e in un parco giochi di Praga contemporaneamente. L’onirismo sembra nascondere e confondere fobie e desideri!
Hai paura? O hai paura come un bambino che gioca con il suo tirannosauro di plastica? Temi e desideri che inizi a mordere sul serio.
NICOZ BALBOA
Emanuela:
Frullati di desideri per te vengono offerti da ambigue ragazzine, desiderose di inciderti le carni con coltelli affilati come il proprio cuore. Dietro le mascherine sui loro visi, nascondono fragilità e solitudine, ma anche potenza creatrice, che crea mondi popolati di amici e amanti immaginari, quando quello “reale” non le soddisfa. Attraversano Paesi delle Meraviglie per sacrificare l’innocenza in un rituale, lento e indelebile come un tatuaggio, che fa linguacce al perbenismo che tenta, invano, di sedurle.
Luca:
Sai non so se è il perbenismo che tenta di sedurre loro o il contrario.. Io personalmente sono soggiogato da questo fascino strafottente. Penso che alla fine il perbenismo chiederà il numero a queste fantastiche ragazzette.
Dimostrano la dimensione di un’individualità così violentemente (e paradossalmente) in equilibrio che non lascia scampo. Tutto ha una dimensione di strana ineluttabilità, dove non si conosce vittima e carnefice, possessore e posseduta, abbraccio o strangolamento. Si cammina sul filo strambo di ambiguità irrisolte, ma dall’esito certo: tutto è letale.
ANDY KEHOE
Emanuela:
Ci sono storie che abitano luoghi del mistero, dove la natura è fiera madre della propria ineffabilità. Storie d’amore e di violenza di creature fantastiche, attraenti ed inquietanti come un bosco di notte, che mi stringono le carni con cilici di malinconia. Hanno il potere di provocare un arresto cardiaco del cuore di un’intera foresta e, se non fai attenzione, del tuo. Vegliano su spiriti deboli, pronti a versarne il sangue. Ma ad ogni morte segue una rigenerazione e dalle carni si librano spiriti fatti di foglie, terra ed alito di fiori, compagni delle nostre solitudini, flebo alle nostre ansie.
Luca:
Si, come un Totem.
Quella forma di alterità, quella dimensione magica, mistica, tantrica, ma anche occidentalmente “saggia”, dei personaggi che popolano le opere di Kehoe rassicurano e atterriscono.
In parte sei soggiogato, annichilito, in parte sembri suggere energie, “flebo ristoratrici” come dici tu. Ma d'altronde qual è l’essenza dello Spirito se non spaventare e contemporaneamente rassicurare?
ANDREA LA ROCCA
Emanuela:
In luna park abbandonati nascosti nelle nostre memorie, chirurghi improvvisati e maestri impagliatori sezionano e scambiano animali ed esseri umani, e tentano di impiantarci ali nella schiena, perchè possiamo volare oltre i nostri stessi schemi mentali. Oltre le piccole, soffocanti contingenze, da riplasmare cambiandone i volti ed il senso. E immortalare un istante qualsiasi dell’esistenza, di apparente stasi, è sospenderlo in una irrisolvibile ambiguità.
Luca:
Ma io un luna park di questi lo conosco. E believe it or not, si chiama “Pinacoteca di Brera”.
Quanta sintesi di questo sezionare e incollare pezzi di carne e immaginario in quella collezione, quante carni corrose, intagliate, infilzate, santi/uccello, armadilli.
E, non a caso, le opere di La Rocca hanno il loro posto in questa dimensione, penso alle figure di Piero della Francesca, a quel diafano e allo stesso mistico sguardo nel mondo. Quegli occhi (che siano fissi sul punto centrale focale della sezione aurea, o nascosti dietro i capelli) non servono per guardare, non danno ai personaggi la capacità di percepire, sono piuttosto l'assente che si fa visibile. Emblema di una vita piana, ma così violentemente altra.
SIVA LE DUC
Emanuela:
E’ così che Siva Le Duc trasforma la dicotomia uccello - fiore in quella di maschile e femminile, per cui il becco che penetra cavità e anfratti floreali scava in realtà nei nostri stati di coscienza. E ci sentiamo un po’ più animali, un po’ scoperti, messi a nudo su un sottile strato di seta dipinta, spogliati delle vesti del nostro sguardo abituale sul mondo, portate via dai forti becchi degli uccelli.
Luca:
Sai, non sono molto bravo con le citazioni, anche perché non le ricordo. Ma sono sicuro che in Demian di Herman Hesse troverei la frase giusta. L’archetipo della nascita, della ri-nascita ma anche della metamorfosi, della gnosi, è ineluttabilmente nell’uovo, nell’uccello.
Mi sono sempre chiesto perché questa dicotomia simbolica, uovo/uccello avesse tanta potenza. Ma in effetti la forma perfetta della staticità (l’uovo è strutturalmente l’oggetto più resistente al mondo) unita alla forma più perfetta della dinamicità (il corpo aereodinamico dell’uccello) non possono che dare la dimensione di una ricerca del perfettibile: essere terrigno/essere etereo.
E questa dimensione in Siva Le Duc sembra entrare sottilmente quanto prepotentemente nel vissuto quotidiano, per cui, permettimi la metafora: la visione incarnata dell’Io, della sua essenza (come dici), della sua potenza evolutiva e gnostica, può prendere la forma nascosta di un ritratto di famiglia, di una tela tessuta a mano.
ANGELA LOVEDAY
Luca:
La senti la limatura di ferro?
Dopo che spari a lungo si sente sul viso un leggero velo pruriginoso, vedi un sottile baluginio brillante alle guance che fa pendant con gli orecchini. È limatura di ferro.
Dopo aver visto le opere di Angela Loveday ti resta oltre a tutto questo anche il rumore rintronato dello sparo. Bang! Ti prende con freddezza e sospettabile precisione, come un proiettile appunto, ma nonostante la dimensione lucida, chirurgica, impeccabile della forma, il risultato è sempre quello, dopo uno sparo c’è sempre sangue, terra, e terra imbrattata di sangue.
La vittima, nemmeno a dirlo, è il nostro inconscio più profondo, le nostre pulsioni, l’irrisolto delle nostre trame familiari. Lo senti lo sparo?
Emanuela:
Si, sento spari che si affollano su ricordi d’infanzia, macchiandoli del sangue dell’ambiguità degli affetti, culla delle prime piccole morti di aspettative e desideri di comprensione, protezione, sicurezza. Bang! Spari sull’innocenza, una mitologia scaduta da riscaldare nel pappone di storielle propinate a ragazzini.
E la limatura di ferro irrita e rinforza la scorza protettiva sul cuore di bambine cresciute, che ti puntano contro un’arma, prima di accettarti come compagno di giochi. Mai capirai davvero se il loro gioco sia finzione o realtà, violenza o simulazione. Nè chi sia la vittima e chi il carnefice, chi il pupazzo o la bambola di chi. Nè saprai, osservando le foto, se i proiettili sono a salve, se le famiglie sono state sterminate col gas, se l’orsetto ha nell’imbottitura una bomba.
NINABOY
Luca:
Quanto ricordo le mutandine bianche dei film giapponesi, mi sembra fossero in Gigi la Trottola, quanto le linee ruvide e veloci dell’Uomo Tigre. Le corse infinite su campi collinari di Holly e Benji, la Londra di Dylan Dog.
Non sono ricordi ormai, sono il profondo, sono l’essenza alla base dei miei mondi successivi: le metamorfosi, le brutture, i traumi, le visioni, le speranze. Ninaboy sembra innestare su un immaginario e una visione estetica condivisa, elementi di violenta pulsione individuale. Tutti siamo chiamati in causa, sei innocente? Sei colpevole? Di sicuro sei testimone.
Emanuela:
Innocenza e colpevolezza, piacere e sofferenza, accadimento e possibilità si mescolano in una sensuale ambiguità, davanti ai nostri occhi. Si, ne siamo testimoni, ma anche un po’ voyeur.
Il sangue di desideri feriti, di cuori ammaccati, di sentimenti uccisi o forse suicidatisi (ma probabilmente solo in coma), diventano farfalle di glitter rosso. Il piacere e il timore sono esseri affascinanti con tentacoli urticanti e sono il corpo di un desiderio che non trovava mai soluzione. Un po’ come per Gigi la Trottola e la sua mutandina-feticcio, vicina, sbirciabile ma irrangiungibile, che animava le sue corse verso il canestro della vittoria. Non c’è vittoria, non c’è sconfitta nelle eterne partite giocate con noi stessi e ciò che desideriamo e temiamo, che ci sfugge come farfalle dalle nostre labbra, mentre siamo intenti a infilare le dita nella marmellata gustosa di ciò che ci è proibito.
CRISTINA PANCINI
Emanuela:
dammi le tue piume uccello, perchè tu non possa più volare. Dammi il tuo corpo, perchè possa spezzettarlo e mescolarlo al mio. Voglio un collo da cigno per guardare tutto dall’alto, a distanza, e poi piombare all’improvviso sulla preda, come un rapace, e divorarla. Catturare ed ingoiare più prede, le cui braccia imploreranno perdono emergendo dalle mie piume. E insieme, noi corpi smembrati e riassemblati, agglomerati di braccia e e ali piumate, becchi e piedi tenuti insieme da budellini sottili, balleremo, girando su noi stessi. E ad ogni passo cambierà il teatro dei nostri gesti.
Luca:
Bello questo tango truculento, o forse non è tango? Direi un merengue, insomma sound sudamericano venato di maracas. Non sono come questi gli uccelli e i paesaggi di Macondo? Io immagino di sì. Animali primordiali che stanno scegliendo la loro strada nell'evoluzione, o le prime fenici a ridar vita dopo una distruzione finale. Alberi e uccelli, mammiferi e ovovivipari, oleandri e suini che, incerti sul da farsi, si mischiano, di mescolano si compenetrano.
Sono gli animali del primo inizio e come tali fanno parte degli archetipi del nostro inconscio profondo.
ELENA RAPA
Luca:
Aiuto! Ti prego aiuto! Perché sento l’abisso ai piedi? Perché sento le gambe tremare? Non c’è nulla, il mio viso non dice nulla, le mie pupille non parlano, le mie rughe non si accigliano, lo specchio non dice nulla; ma ho paura.
Sento l’Io puntato con i piedi sull’abisso, “scegli”, ti dice il destino: “sei dentro o cadi giù”. La vita normale, le persone normali intorno, ti guardano e non sospettano nulla, ma tu sai che il volo, il salto dal burrone è solo un passo. Oplà.
Emanuela:
E’ tutto nella tua testa, non avere timore, ti aiuto a cadere senza romperti tutte le ossa. Vieni con me, perchè anch’io ho visioni nel cervello che mi impediscono di uscire di casa oggi. Ma se mi accompagni andiamo a cercare fiori da estirpare dai campi della nostra infanzia e dimenticare che tutto deve essere in ordine, nella nostra camera da letto come nell’esistenza. Voglio far esplodere i cassetti dove chiudo i miei pensieri mentre dormo e farne cadere a caso il contenuto attorno a me, mentre passeggio per strada. Sono sicura che nel burrone cadrei, pezzo dopo pezzo, prima un piede, poi una mano, per poi ricompormi, incolume. Vieni con me. Ti aiuto io a cadere bene, sono un’esperta.
PIETRO SEDDA
Emanuela:
Pietro Sedda strappa volatili dai nostri incubi, li dipinge con le nere ombre delle nostre paure e in loro riconosciamo i sorveglianti dei nostri desideri assassinati, che ci guardano con i nostri stessi occhi e ci trafiggono con piume d’amore. Pronti a incidere sulla nostra pelle la mappa delle nostre (dis)illusioni, tatuandocela con i loro artigli.
Luca:
Sai che credo di non aver mai sognato un volatile in vita mia? Nemmeno sotto forma di incubo.. La cosa non so se debba preoccuparmi o farmi piacere. Sta di fatto, come dici, che questi uccelli hanno la forma di guardiani del nostro inconscio. Si, quando hanno visto spuntare qualche pulsione incongrua hanno spiccato il volo e l’hanno assassinata. Quando hanno visto il movimento delle nostre pupille muoversi verso qualche desiderio indicibile ci hanno strappato il bianco negli occhi.
Non li ho mai sognati gli uccelli nella notte, ma queste visioni di Sedda mi suggeriscono che sono comunque lì, negli anfratti del mio inconscio, in guardia, a vigilare.
URI
Emanuela:
Nel circo dell’esistenza in cui scegliere se essere maghi o acrobati, clown o ballerini, domatori o lanciatori di coltelli e in cui tutti, in modo o nell’altro, siamo mostri da freak show, ci vengono offerti degli amici fatti di scaglie di cartone e budellini di sogno. La Spagna nel colore, la fantagenetica nello scolpire, la pazienza di un rituale che scaglia a scaglia riempie gli anfratti della nostra soliturdine, mi rendono difficile dire addio agli ibridi animali di cartone che sanno ringhiare e canticchiare filastrocche. Ibridi come lo sono io, fluorescenti come i miei pensieri.
Luca:
L’unica consolazione degli animali dello zoo è che possono vedere al di là delle gabbie altri animali ben peggiori. Questi di Uri non sono da zoo, ma circoscrivono il labirinto del nostro quotidiano, ci guardano per farci capire la nostra posizione nel mondo. E si divertono a confondere le parti di osservante e osservato, animale e domatore, zoo e salotto di casa.
USELESS IDEA
Luca:
Dai Emanuela, fai questo test di Rorschach!
Hai presente quei film americani dove ad un certo punto lo strizzacervelli presenta delle tavole e dice stentoreo “signorina adesso mi dica cosa vede”. Immediato brivido dell'interlocutore... Allora, ti chiedo: cosa vedi?
Cosa disveleranno quelle risposte? Cosa di recondito saranno in grado di dire? Quelle tavole/macchie, che ormai fanno parte del mito della psicologia contemporanea, hanno lo straordinario potere di aprirsi ad interpretazioni essenziali e guidate. L'individuo si sente rassicurato e si apre alla lettura; ma l'autore/psicologo conosce (perché li ha costruiti) gli elementi simbolici che sono stati inseriti nelle tavole per stimolare l'emergere di pulsioni, patologie, traumi.
Questo è quello che vediamo adesso, opere che non stiamo interpretando, ma opere che ci stanno scrutando. E l'autore ride sotto i baffi.
Emanuela:
Vedo le mie inquietudini scarnificate dall’artista, prendersi per mano e scatenarsi in una danza macabra. Le ombre e le linee dei disegni, tracciate con precisione da chirurgo con la passione del ricamo, segnano sentieri impervi di un inconscio di cui Useless tagliuzza le fobie, per mescolarne i pezzi, come in un puzzle.
Tra nebulose di colore, guardiani delle pulsioni più nascoste mi fanno intendere che non c’è niente da interpretare in maniera assoluta, che l’artista non fornisce risposte, ci pone davanti a macchie, di Rorschach o di Useless Idea, perchè ci risucchino in un mondo in cui ogni segno genera una serie di possibilità di senso, aperte, eccedenti una spiegazione razionale, che fanno esplodere le mie e le altrui certezze. Ed ecco, gli scheletri, danzando, ridacchiano, proprio come l’artista, ed ad ogni passetto un lembo di carne cade. E, sfilacciato e leggero, finisce proprio sui miei occhi.
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